Percorso

IL PERCORSO ENOLOGICO-ETNOGRAFICO DEL MUSEO DEL VINO

 

Vi proponiamo un breve approfondimento dei temi trattati nel percorso museale. Potrete leggerlo in preparazione alla vostra visita al museo.

ARCHEOLOGIA E VINO  Il Museo del Vino, con il suo percorso enologico-etnografico, mette in risalto storia, cultura e tradizioni  della produzione del vino in Sardegna. Attraverso uno scorcio della mostra Thyrsos, ci si immerge in un mondo antico, fatto di viaggi nel Mediterraneo attraverso i quali, su navi onerarie, il vino raggiungeva i porti in affascinanti anfore vinarie.

Nel 1939, probabilmente grazie a informazioni di alcuni pescatori locali e dopo diverse immersioni, si giunse al più famoso ritrovamento archeologico di età romana fra l’isola di Spargi e la costa sarda. Sul fondo, a 18 metri di profondità, giaceva il relitto di una nave carica di anfore; se ne portarono alla luce una decina, che ben presto si dispersero fra vari estimatori.

Passarono quasi vent’anni quando, nel 1957, un appassionato subacqueo tornò a Secca Corsara sulla scia delle voci del mare e riscoprì la cava sommersa di anfore romane. Nell’aprile del 1958 una motonave con equipaggio e 15 sommozzatori raggiunse il luogo dove giaceva il relitto e iniziò l’impresa che sarebbe durata almeno tre settimane. Furono fatti rilievi fotografici di ogni riquadro, fu disegnata una mappa del fondo e infine fu recuperato il primo strato di trecento.

Si tratta di una robusta nave oneraria romana, risalente al  decennio compreso fra il 120 e il 110 a.C., che trasportava anfore, centinaia di vasi e altra ceramica imboccò il difficile intrico di mare e isole che i marinai chiamano appunto “cuniculariae” (isole dei conigli). Una rotta non facile sia per l’insidia dei fondali sia per i venti violenti che si incanalavano lungo il “fretum Pallicum” (Bocche di Bonifacio), sia infine per i rischi di una certa pirateria che andava facendosi sempre più insidiosa e che proprio tra i “cunicula” di tante isole trovava i suoi migliori luoghi di agguato.

Dalla ricostruzione emerge che la nave ha un peso di 150 tonnellate, lunga 35 metri e larga 8. Il carico era stivato razionalmente. Nel centro a poppa gravava il gran peso delle anfore in 3 o 5 piani, ognuna infissa con il peduncolo, o puntale, negli incavi formati dai colli dell’anfora del piano inferiore. Se ne trovavano di diversi tipi: panciute con collo breve e tozzo e manici piccoli, oppure snelle dal collo lungo e dalle belle anse, di tipo italico. In tutto potevano essere 2000 anfore, così compatte ed elastiche nel loro insieme, da sopportare qualsiasi oscillazione.

Non vi sono tuttavia dati archeologici certi sulla presenza di uomini fenici, greci o romani ma il ritrovamento di cocci di terracotta e altri utensili legati al trasporto del vino e altri alimenti danno ormai per il loro passaggio in Sardegna. Gran parte di questi ritrovamenti sono oggi conservati al Museo Archegologico Navale “Nino Lamboglia”, dal nome dell’archeologo subacqueo, e si trova a La Maddalena.

 

BREVE STORIA DEL VINO IN SARDEGNA.

La prima vera testimonianza riguardo la viticoltura in Sardegna risale al IX secolo a.C. quando, nell’agro di Monastir in provincia di Cagliari, si presume fosse presente il più antico laboratorio di vinificazione della Sardegna. A quel periodo risalgono anche i chicchi d’uva carbonizzati trovati all’interno di un’abitazione del complesso nuragico di Genna Maria a Villanovaforru, sempre nei pressi di Cagliari.

Vi sono comunque una serie di fattori che porterebbero a considerare i Fenici come i veri padri della viticoltura sarda. Ai Fenici si deve infatti l’introduzione nell’isola di due tra i più antichi vitigni ancora oggi presenti sul territorio regionale: il Nuragus e la Vernaccia. Non è un caso che, nonostante il clima e il suolo della Sardegna fossero ideali per la viticoltura, la diffusione dei vitigni si è concentrata prevalentemente lungo i litorali, forse a causa delle difficoltà nei collegamenti tra le zone costiere e quelle più interne.

 A partire dal VI secolo a.C. la dominazione cartaginese occupò le aree costiere di interesse economico con lo scopo di evitare l’insediamento dei Greci sul territorio sardo; le rigide disposizioni cartaginesi portarono però alla distruzione delle piante da frutto impedendo lo sviluppo della viticoltura. Solo in un secondo momento vi fu un inizio di produzione, seppur limitata ad uso domestico e successivamente locale, come dimostrano i reperti archeologici rinvenuti nelle città di Tharros, Karalis e Olbia.

In seguito furono i Romani a concedere ai sardi la possibilità di coltivare la vite. La villa “S’imbalconadu”, di epoca tardo-repubblicana, nei pressi di Olbia, disponeva di strutture per la produzione di vino, impianti per la pigiatura e vasche per il mosto. Ai Romani si riconosce anche l’introduzione del Moscato.

Ad essi succedettero i Bizantini, esperti di coltura viticola, che arrivarono in Sardegna intorno al 534 d.C. I monaci bizantini tendevano a circondare le proprie dimore con delle vigne e furono loro a diffondere nell’isola vitigni come Malvasia e Moscato.

Terminata la dominazione bizantina, i sardi dovettero autogovernarsi e istituirono così i giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura. Restando però sotto l’influenza della Chiesa di Roma, la Sardegna ospitò diversi monaci e tra essi i più importanti nella coltivazione della vite furono senza dubbio i Benedettini. I registri amministrativi risalenti ai secoli XI, XII e XIII d.C. mostrano infatti un numero rilevante di transazioni commerciali legate ai vigneti, effettuate per mano di strutture ecclesiastiche.

Successivamente, per favorire il commercio della vite, i sardi decisero di disboscare e reimpiantare i vigneti. In questo modo la viticoltura si diffuse in tutto il territorio e iniziarono a differenziarsi anche le varietà di vite, che includevano i nuovi Monica, Pascale e Galoppo oltre ai già presenti Moscato, Malvasia, Vernaccia e Girò. Le zona nelle quali si affermò la coltura della vite furono soprattutto quella di Cagliari, del Sulcis, dell’Ogliastra e del Sassarese.

A partire dal 1410 la Sardegna cadde sotto la denominazione spagnola, durante la quale furono introdotti numerosi vitigni di origine iberica come Nasco, Torbato, Cannonau e Carignano. La produzione divenne quindi abbondante e di qualità. Nel 1686 le Prammatiche istituirono sanzioni severe per chi estirpava le vigne, al fine di tutelare la produzione in seguito alla crisi demografica che rallentò l’economia agricola.

Durante il Regno di Savoia troviamo invece una Sardegna povera, tanto che fu necessario intervenire in diversi settori tra cui quello agricolo. Negli anni vi fu una nuova immagine positiva dell’isola, grazie all’opera Rifiorimento della Sardegna (1776) che indicava la viticoltura sarda come uno dei settori più promettenti dell’economia del Regno. L’opera rappresentava dunque un chiaro messaggio rivolto al Governo affinché in Sardegna si facesse uno sforzo per introdurre i metodi già messi in atto in altre regioni per produrre vini di qualità. Tali interventi risultarono però assenti. 

Dal 1840 nacquero nuove organizzazioni culturali ed economiche che rilanciarono l’agricoltura sarda e sei anni dopo fu istituita l’Associazione dei Viticoltori Sardi. Sorsero quindi nuove zone vinicole nel Campidano, nel Mandrolisai, nel Nuorese, nella Planargia e nella Gallura Orientale. Tra il 1870 e il 1880 la viticoltura da marginale passò ad essere uno dei settori trainanti dell’economia in Sardegna. Tuttavia nel 1883 la filossera iniziò a colpire i vigneti nell’agro di Sorso e, negli anni seguenti, andò perduto il 60% del terreno coltivato. Nel ventennio tra le due guerre mondiali iniziò invece a prender forma l’idea di una cooperazione, con lo scopo di commercializzare e promuovere il vino; nacquero così le Cantine Sociali di Monserrato, Quartu e Calasetta che, pur avendo una produzione limitata, fecero capire come fosse possibile migliorare le tecniche e la qualità grazie a un’adeguata organizzazione. A metà del ‘900 la superficie vitata regionale era pari a 45.296 ha, il 58% della quale in provincia di Cagliari, seguita da quella di Sassari (22%) e Nuoro (19%). Dopo un rapido incremento degli ettari coltivati, negli anni ’90 iniziò una fase discendente legata soprattutto alle normative UE che hanno offerto remunerazioni per l’estirpazione dei vigneti, con una perdita di circa 35.000 ha.

Fonte:  ESPACIO Y TIEMPO, Revista de Ciencias Humanas, No 21-2007, pp. 41-64 LA GEOGRAFIA E IL PAESAGGIO DEL VINO IN SARDEGNA – Donatella CARBONI, Sergio GINESU.

Allegati FILE Progetto CCB  Direttore scientifico PROF. GIANLUIGI BACCHETTA  www.ccb-sardegna.it

ATTREZZI LAVORAZIONE DELLA TERRA:

ARATRI

Anche se oramai completamente caduti in disuso perchè sostituiti da prodotti dell’industria più idonei, non è lontano il tempo in cui gran parte di lavori di aratura venivano effettuati dall’agricoltore sardo col caratteristico aratro di legno a chiodo. Mancando dell’orecchio, esso veniva usato in particolare per tracciare le gore di scolo dell’acqua piovana nei campi, in quanto consentiva di aprire un solco nel quale le zolle venivano divise e riversate ai due lati. Quando la gora doveva essere più larga, a livello del vomere veniva legata una fascina di ramaglie che permetteva la contemporanea pulizia del fosso. Veniva confezionato artigianalmente in loco ed era costituito da una lunga stanga di legno resistente, spezzata a metà circa per una sua maggiore elasticità, terminante con una curvatura, in fondo alla quale era fissato un porta vomere bipennato sul retro e appuntito nella parte anteriore per poter ricevere il vomere di ferro a chiodo. Tra questi due elementi era inserito un bastone (nèrbiu), che aveva una triplice funzione: di sostegno, in quanto irrobustiva la struttura di tutto il complesso; di regolazione della profondità del solco e di spartizolla. Per la guida portava infissa verticalmente, nel punto della stanga, col portavomere, una asta di legno terminante nella parte superiore a croce. Dai primi decenni di quest’ultimo secolo le tecniche agricole si sono evolute, nonostante il suo attaccamento alla tradizione e una certa refrattarietà alle innovazioni. L’aratro di ferro è stato il primo prodotto della tecnica che è entrato nella vita agricola nostrana. Per la sua enorme diffusione non riteniamo di doverci soffermare a descriverlo; diremo solo che i tipi prevalentemente usati erano quello standard e il voltaorecchio, quest’ultimo particolarmente utile nelle arature in collina in quanto consentiva di arare solco su solco anziché in circolo.

I CARRI

Il carro subisce radicali trasformazioni a seconda dell’uso cui deve essere adibito. Il carro agricolo tradizionale è costituito da una stanga di legno resistente, opportunamente sagomata, spaccata a metà per i 4/5 circa della sua lunghezza in modo da poterne divaricare le due parti tanto da consentire l’appoggio su di esse di un assito con funzione di piano di carico. Su questo, in opportuni incastri, vengono montate due spalliere simmetriche Il tutto poggia su un assale collegato a due ruote a raggi, di legno, tenuto da cerchi di ferro che ne costituiscono il battistrada. In certe occasioni, per allargare la capienza del carro, vengono integrate da una speciale gabbia formata da grossi bastoni di legno, generalmente mandorlo, che viene incastrata negli spazi vuoti de per consentire il carico di covoni di grano, il trasporto delle fave dal campo all’aia e di altri carichi voluminosi e relativamente pesanti. In altre occasioni, quando il materiale da trasportare non sufficientemente consistente da poter essere trattenuto, come paglia e letame da stalla, all’interno di essi viene collocata sa cedra, sorta di stuoia confezionata con mazzi di verbasco. Nel periodo della vendemmia il carro viene liberato da per lasciare spazio a un tino che viene fissato per mezzo di funi attorcigliate. Quando si doveva trasportare la legna da ardere, raramente reperibile in zona, per cui era necessario spostarsi nelle zone boscose del Gerrei, era opportuno sfruttare al massimo la capienza del carro, e pertanto, mediante l’incastro di una speciale forcella nella parte anteriore, il carico delle fronde poteva essere effettuato fin quasi a raggiungere il punto dove si attaccava il giogo . La forcella sopra citata serviva a restringere il carico tanto da consentire libertà di movimento ai buoi.

 

SISTEMI DI ALLEVAMENTO Il vigneto è un sistema biologico che l’uomo è riuscito a modulare a fini produttivi, quindi la viticoltura è il risultato di ragionamenti e condizioni pedo-climatiche, con l’obiettivo di stabilire il rapporto tra ambiente e vigneto e arrivare al massimo del potenziale del materiale utilizzato. Per quanto riguarda l’allevamento della vite la pratica più diffusa in Sardegna per tradizione è “l’alberello”. Questo sistema prevede l’utilizzo di fili e sostegni è  una potatura corta o lunga in base all’obiettivo enologico, ma nonostante questo si utilizzano altri tipi di allevamento; guyot, cordone speronato, tendone ecc . Il guyot è un sistema di allevamento del vigneto di tipo misto o lungo che conserva, cioè, tralci di media lunghezza ed un certo numero di gemme, tra 10 e 20, su un ceppo alto tra gli 80 ed i 100 centimetri.

Il Cordone speronato è un sistema di allevamento della vite che durante la potatura invernale seleziona 5, 7 germogli ben lignificati e posizionati da cui si ricaveranno altrettanti speroni a due , tre gemme.

Il tendone è un  sistema di allevamento che, anche se non è esattamente classificabile come una pergola, deriva proprio da essa. Le viti sono coltivate lungo filari costituiti da pali che sorreggono una struttura continua, formata da fili distanti circa 40-50 centimetri l’uno dall’altro.

Se si parla di vigneti si deve automaticamente parlare di portainnesto, utilizzato per aumentare la resistenza delle coltivazioni e il controllo della maturazione . In Sardegna sono ancora presenti coltivazioni prive di portainnesto.

 

VITIGNI Per avere un quadro geografico più preciso riguardo la grande varietà dei vitigni coltivati in Sardegna, proviamo ad associare i principali alle zone più note dell’isola. E’ necessario precisare che i fiori all’occhiello della viticoltura sarda, il Cannonau e il Vermentino, sono coltivati e prodotti in tutto il territorio regionale in quanto si tratta di due D.O.C.

Il Vermentino rappresenta il vino bianco per eccellenza e viene coltivato da nord a sud grazie al clima mite di cui gode la Sardegna, che favorisce un’ottima qualità del prodotto. Tuttavia questo tipo di vino gode anche di una D.O.C.G., l’unica in questa regione, che viene riservata al Vermentino prodotto in Gallura. Il Vermentino di Gallura D.O.C.G. è infatti caratterizzato dal fatto che il terreno sul quale si coltiva il vigneto è di tipo granitico e roccioso, spesso arido, ideale per la produzione del vino. Ciò gli conferisce maggiore particolarità e tipicità. Restando nella zona del nord Sardegna, spostandoci nel sassarese e più precisamente nell’agro di Alghero e dintorni, un altro tipo di vino bianco prodotto in quantità non indifferenti è il Torbato. Si tratta di un bianco frizzante dal gusto secco, utilizzato principalmente come aperitivo, importato dal bacino dell’Egeo ma che ha trovato in questo territorio un habitat naturale e favorevole. In Italia non vi sono molte aree dedite alla coltivazione di Torbato, quella di Alghero rappresenta l’unica a livello nazionale.

Altro vitigno importante per l’isola è il Cannonau. Questo rosso rappresenta il vitigno a bacca nera più diffuso in Sardegna e il più antico di tutto il bacino del Mediterraneo, riconosciuto come autoctono. La sua coltivazione è estesa in tutto il territorio sardo tuttavia vi sono delle aree particolari che producono un Cannonau  d’eccellenza: Jerzu e Oliena.

Nella sottozona del Mandrolisai, tra le province di Nuoro e Cagliari, troviamo anche le coltivazioni del Monica, un rosso meno diffuso ma altrettanto caratteristico della regione. Anch’esso risulta essere uno dei più antichi, legato forse al tempo della dominazione spagnola; oggi la Sardegna risulta l’unico territorio produttore.

Arrivando nella provincia di Cagliari, al sud dell’isola, oltre al già citato Monica troviamo grandi coltivazioni di Carignano e Nuragus. Il Carignano è un rosso prodotto principalmente nella zona del Sulcis, anche nelle tipologie riserva, superiore, novello e passito. Il Nuragus invece è un bianco di origine antica, probabilmente importato dai fenici e caratterizzato dalla rusticità e dal facile adattamento del vitigno ad ogni tipo di terreno; esso ha quindi trovato la giusta sistemazione nel suolo sardo e ciò ha favorito anche il suo reimpianto dopo la crisi della filossera avvenuta nell’800. Oggi il Nuragus è uno dei vini bianchi più diffusi in Sardegna.

Infine, risalendo verso la parte centro-occidentale della Sardegna, nella provincia di Oristano, troviamo ancora coltivazioni di Nuragus e Monica affiancati ai più tipici Vernaccia e Malvasia. La Vernaccia è un vino bianco di origine molto antica, tanto che già nel periodo Giudicale per volontà di Eleonora D’Arborea furono istituite norme severe per la salvaguardia dei vitigni. Recentemente, a partire dagli anni ’90, la Vernaccia ha però subito un forte calo di produzione dovuto alla perdita di interesse dei consumatori in seguito alla comparsa sul mercato di una maggiore scelta di vini. Si tratta infatti di un vino dal sapore forte e particolare, non apprezzato da tutti i palati. Altrettanto particolare è la Malvasia, tipica dell’agro di Bosa ma con ogni probabilità di origine greca. Il vitigno pare sia stato importato nell’isola dai veneziani, in seguito alla caduta dell’Impero Romano nel 452 d.C.. Con ogni probabilità approdò nei pressi di Bosa, e ciò spiegherebbe perché la sua coltivazione si limiterebbe principalmente al territorio della Planargia. L’eccezionalità della Malvasia è legata proprio alla posizione di questo terreno, all’orientamento delle valli e alla loro vicinanza al mare che hanno particolari effetti positivi sulle sue caratteristiche qualitative.  Nonostante questi siano i vitigni maggiormente coltivati sul territorio sardo e perciò prodotti perlopiù da tutte le cantine vitivinicole della Sardegna, oggi assistiamo anche a un forte tentativo di rivalorizzazione di quelli che possono essere considerati i vitigni autoctoni della regione. Così, al fianco dei vini più richiesti sul mercato, sta prendendo piede la tendenza di dedicarsi ad altre tipologie per mantenere viva la coltivazione dei vitigni minori. Tra questi Arvisionadu, Barbera Sardo, Bovale, Caddiu, Caricagiola, Girò Nero, Nasco, Nieddera, Pascale di Cagliari, Retagliadu.

LA LAVORAZIONE DELLE UVE

La lavorazione dell’uva inizia nel vigneto, con un lavoro meticoloso che non può certamente essere trascurato o sottovalutato. Ogni aspetto va progettato attentamente, dalla scelta della varietà coltivata, dipendente dalle condizioni climatiche e dalla natura del terreno, al tipo di impianto. Particolare attenzione va riservata alla forma dall’allevamento, anch’essa dipendente dalle condizioni precedenti. Il tipo di potatura è fondamentale non solo per la stagione in corso, ma anche per il rinnovo delle piante nell’anno seguente. Da esso poi dipende la qualità delle uve e quindi del vino che si produrrà, la concentrazione zuccherina e la crescita della pianta.

 

La vendemmia (raccolta del frutto) rappresenta la prima fase del processo che porta ad ottenere il vino dall’uva. Il grado di maturazione desiderato per l’uva varia in funzione del vitigno e prodotto che si vuole ottenere. Più a lungo l’uva resta sulla pianta, maggiore sarà il contenuto zuccherino e di sostanze pigmentanti nei mosti e minore sarà la loro acidità. Per i vini bianchi da consumarsi giovani e freschi, soprattutto se spumantizzati, si opterà per una vendemmia piuttosto precoce, mentre per i vini destinati all’invecchiamento, si prolungherà la permanenza sulla pianta fino ad arrivare alla maturazione fenolica delle uve. Durante la vendemmia gli acini non solo devono essere raccolti in modo da essere integri, ma anche selezionati con esperienza e maestria, in quanto non potranno essere chiaramente tutti uguali nel loro grado di maturazione.

Il lavoro prosegue poi in cantina, altro luogo fondamentale della lavorazione delle uve. Anche qui un errore potrebbe essere fatale. Vanno quindi scelte le attrezzature giuste, in funzione del tipo di vino e delle lavorazioni che si intendono eseguire. Anche qui gli studi enologici e l’esperienza giocano un ruolo importantissimo nello stabilire i tempi e i processi di vinificazione giusti. Gli acini devono venir separati dal rachide o raspo mendante la diraspatura (attrezzo n.1). La pigiatura è la spremitura degli acini per separare la parte liquida da quelle solide (vinacce e vinaccioli) che, dopo eventuale macerazione assieme con i succhi, vengono allontanate dal mosto. (attrezzi n…..)

Nella vinificazione ogni stagione rappresenta un progetto a se stante, che deve essere valutato e calcolato con estrema precisione. Il grado di maturazione delle uve, e quindi il contenuto zuccherino, possono variare, anche sensibilmente, cambiando cosi i tempi di fermentazione e macerazione. I nutrienti potrebbero aver modificato ugualmente le concentrazioni, variando cosi i profumi del vino.

Prima di venir imbottigliato, una volta completata la fermentazione, il vino viene sottoposto a travasi e filtrazione, a cui segue un periodo di assestamento chiamato affinamento, dove il vino viene condotto in recipienti inerti (acciaio, cemento, vetroresina) per un periodo variabile da qualche settimana a qualche mese.

Terminata la maturazione, il vino viene nuovamente travasato e filtrato e finalmente messo in bottiglia (imbottigliato). Il vino a questo punto deve nuovamente stabilizzarsi, pertanto viene fatto affinare in bottiglia solitamente per uno-tre mesi prima della messa in commercio.

 

UN’ALTRA GRANDE RISORSA: IL SUGHERO La quercia da sughero vegeta naturalmente solo nella parte occidentale del Mediterraneo. Trova un ambiente ideale alla propria crescita in Portogallo, Spagna, Francia, Tunisia, Algeria, Marocco, oltre che sulla gran parte delle coste tirreniche italiane e in particolare in Sardegna, che può essere considerata il centro geografico della sua diffusione. La Sardegna, infatti, ogni anno fornisce da sola i due terzi della produzione nazionale di sughero. Le fustaie di quercia da sughero isolane occupano una superficie di circa 90.000 ettari e rappresentano poco più della metà dei boschi ad alto fusto dell’Isola. Si tratta, pertanto, di una componente forestale di notevole importanza, con boschi presenti soprattutto nel Goceano, in Gallura, nell’altopiano di Buddusò, nei territori di Abbasanta, Sorgono, Bitti e Orune, nel Sarrabus e nell’Iglesiente.

 

ESTRAZIONE DEL SUGHERO

Lo Sfruttamento del sughero prende avvio con l´estrazione della materia prima; in questa fase iniziale assume un ruolo centrale lo studio delle caratteristiche della quercia da sughero: si tratta di una tipica pianta mediterranea la cui ampia diffusione soprattutto in Sardegna e in particolare nell´area gallurese, è legata ad alcune sue peculiarità qual l´adattamento alla siccità e la resistenza agli incendi.

La Sardegna è la regione italiana dove si concentra la maggior parte delle sugherete nazionali; la coltivazione della quercia da sughero si estende nell´Isola su 91.000 ettari.

Al contrario di altre piante mediterranee la sughera non ha una vita lunghissima, potendo al massimo raggiungere i 300 anni, durante la quale è necessaria una certa attività di “manutenzione” che viene effettuata a primavera inoltrata e consiste in sfollamenti, diserbi, parziali decespugliamenti, zappatura e sarchiatura. La prima decorticazione, detta “demaschiatura”, avviene intorno al venticinquesimo anno di vita della pianta e il prodotto di prima formazione è detto “sughero maschio” o “sugherone”; esso è di scarsa qualità (ruvido, poroso e legnoso) e inadatto alla lavorazione per cui viene macinato e destinato alla produzione dei conglomerati.

Il sughero di estrazione successiva presenta una struttura più regolare (liscio, compatto, leggero, elastico e impermeabile), si presta bene ai processi di trasformazione, ha un maggiore valore economico e viene definito “sughero femmina” o “sughero gentile”. L’estrazione del sughero dalla pianta viene effettuata manualmente dagli “scorzini” che adoperano solamente un’accetta affilata; essi, lavorando generalmente in coppia, effettuano due tagli orizzontali alla base del tronco e in alto, e una o due incisioni verticali, dopo di che, facendo leva col manico della scure, staccano con attenzione la corteccia, evitando di strapparla e di danneggiare il fellogeno. Una volta estratto, il sughero viene trasportato presso i centri di raccolta e qui diviso per caratteristiche qualitative: mentre il sugherone è destinato alla macina, le plance di sughero gentile sono accatastate all’aperto e lasciate stagionare per un periodo generalmente compreso tra i sei mesi e i due anni. Le plance di sughero vengono appoggiate col dorso in alto su tavole sollevate dal suolo al fine di favorire l’areazione; esaurita la fase della stagionatura il sughero viene bollito per circa un’ora in vasche d’acciaio e dopo essere stato pressato e impilato, è pronto per passare in produzione.

STAGIONATURA

Dopo la raccolta, il sughero viene sottoposto ad un periodo di stagionatura all’aperto della durata di almeno un anno.

Durante la stagionatura,  il tessuto suberoso subisce fenomeni di contrazione ed espansione che consentono l’eliminazione di gran parte della polvere rossa contenuta all’interno dei pori.

Per tutta la durata della stagionatura il sughero viene tenuto ben sollevato dal terreno in modo da evitare contaminazioni con il suolo stesso  e con l’esposizione all’aria il sughero si essicca, perde gran parte della polvere, migliora le sue caratteristiche ed in particolare la morbidezza e l’elasticità.

 

 

LAVORAZIONE

La fase successiva di lavorazione naturale del sughero è quella della bollitura, che avviene in vasche dove l’acqua viene portata ad una temperatura di circa a 120 gradi per rendere sterile ed elastica la corteccia che normalmente è più rigida. Sottoposte all’azione della temperatura e alla successiva pressatura, le plance di sughero perdono il loro naturale aspetto curvo e risultano pronte per tutte le lavorazioni necessarie. Nel caso della realizzazione di prodotti per l’isolamento termico e acustico, l’ultimo passaggio vero e proprio consiste nella macinazione, che avviene in un mulino di frantumazione dedicato.

I granuli di sughero ottenuti dalla bollitura e macinazione vengono liberati dalle scorie legnose, depolverati, selezionati, per eliminare sostanze organiche residue.

I TAPPI DA SUGHERO

I tappi da sughero venivano utilizzati dagli antichi Greci nel V secolo a.C. per la chiusura dei contenitori. Questa buona abitudine deriva dalla scoperta, avvenuta oltre 2500 anni fa, delle proprietà principali del legno ricavato dall’albero di sughero (o sughera): isolamento termico, resistenza agli urti, galleggiamento e capacità di sigillare i recipienti, bassa permeabilità ai liquidi. I tappi di sughero furono diffusi nell’enologia dalla Francia, a partire dalla seconda metà del XVII secolo.

Un tappo deve essere scelto in base alla tipologia di vino, alla pressione che esercita e al diametro del collo della bottiglia; influisce sulla conservazione del vino perché blocca l’ingresso di aria. Dopo l’imbottigliamento il vino continua a evolversi, assumendo peculiarità e bouquet tipici dei diversi prodotti, dunque il tappo è in grado di regolare in maniera perfetta gli scambi gassosi fra bottiglia e ambiente esterno, mettendo al riparo da fenomeni di ossidazione rapida che avrebbero effetti negativi sul vino.

 

FOTO LASTRE DI SUGHERO PER EDILIZIA, OGGETTI MODA, TAPPI

 

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